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Luca Zingaretti al Teatro del Giglio con La torre d’avorio di Ronald Harwood

Martedì 4, mercoledì 5 e giovedì 6 marzo, ore 21.00

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Luca Zingaretti sarà al Teatro del Giglio da martedì 4 a giovedì 6 marzo con lo spettacolo La torre d’avorio di Ronald Harwood, ultimo titolo dela stagione di prosa realizzata in collaborazione con la Fondazione Toscana Spettacolo. L’attore, diventato famoso vestendo i panni del Commissario Montalbano, sarà sulla scena nella duplice veste di regista e attore, insieme a un altro grande nome del teatro italiano: Massimo De Francovich. Completano la compagnia Paolo Briguglia, Gianluigi Fogacci, Francesca Chiocchetti, Caterina Gramaglia.

Scrive Masolino d’Amico: «Furtwängler, universalmente acclamato accanto a Toscanini come il maggiore direttore d’orchestra della prima metà del secolo, non era stato nazista, e anzi non aveva nascosto di detestare le politiche del Terzo Reich. Ma nel buio periodo dell’esodo di molti illustri intellettuali che avevano preferito trasferirsi all’estero piuttosto che continuare a lavorare in condizioni opprimenti, era rimasto in patria, e aveva svolto la sua attività in condizioni privilegiate. Aveva scelto, in tempi durissimi, di tenere accesa la fiaccola dell’arte e della cultura, convinto che questa non abbia connotazione politica. Ma ecco ora che i vincitori vogliono vederci chiaro, e se possibile far crollare anche questo superstite mito della superiorità germanica». Il suo antagonista è un maggiore dell’esercito che detesta la musica classica, un venditore di polizze assicurative, un uomo che ha visto di persona gli orrori delle camere a gas. Soprattutto, un americano convinto nell’eguaglianza di tutti gli uomini sia nei diritti, sia nelle responsabilità.

Ronald Harwood – autore di “Servo di Scena” e di numerosi altri testi teatrali, letterari e cinematografici (uno dei quali, la sceneggiatura del “Pianista” di Roman Polanski, premiato con l’Oscar) – è contemporaneamente ebreo, appassionato di musica (ha scritto una commedia su Mahler, un romanzo su César Franck) e sudafricano: in grado quindi sia di guardare il contegno di Furtwängler con gli occhi critici di una delle vittime, sia la tracotanza del filisteo maggiore Arnold con quelli di qualcuno per cui l’arte sia un bene supremo e irrinunciabile, sia l’atteggiamento dei vincitori dalla prospettiva di uno di loro ma che non è coinvolto come loro. Lo scontro tra due avversari così diversi e così poco disposti a capirsi – soprattutto, ciascuno dei quali è convinto delle proprie ragioni - offre teatralmente quello che nella boxe è considerato il match ideale, tra il picchiatore e lo schermidore; tra coloro che assistono, variamente coinvolti, paio offrono testimonianze ambigue, che potrebbero andare sia a carico sia a discarico dell’imputato. Del resto l’episodio è storico, all’epoca Furtwängler fu veramente indagato e in qualche misura umiliato, e se le accuse poi caddero la sua immagine pubblica non recuperò più del tutto la limpidezza di una volta. Il suo caso suscita interrogativi che nessuna formula sembra aver risolto ancora oggi, e assai modernamente l’autore non propone risposte, ma sollecita ogni spettatore a dare la sua. Con un regime infame non si deve collaborare, questo è ovvio. Ma svolgere un’attività artistica equivale a collaborare? Per qualcuno, sì: si contribuisce a dare un’immagine positiva di un Paese che invece è marcio. Per qualcun altro, no: se mostri l’arte, la bellezza, ai tuoi concittadini per quanto oppressi, aiuti a tener vivo in loro qualcosa che un giorno potrebbe aiutarli a riprendersi. In molti casi la questione può essere risolta dalla coscienza individuale: se non voglio i soldi, mettiamo, di quel tale editore le cui posizioni politiche non condivido, posso pubblicare con qualcun altro. Ma quando si tratta di un personaggio così rappresentativo, che le sue scelte costituiscono un esempio per tutti?

 

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