Sono passati quasi due anni da quando mia madre ha deciso di andare a controllare personalmente cosa ci fosse “al di là”…
Se n’è andata in silenzio, senza disturbare, come ha vissuto tutta la sua vita, ma più il tempo passa e più mi riaffiorano nella mente cose, situazioni, frasi alle quali non pensavo da quando ero piccolo: i miei amici mangiavano le pallette ( o i matuffi) e il bilordo e io mangiavo i batuffoli e il mallegato, loro il castagnaccio e la farinata ed io il toppone e il bordatino, i ballocciori e le mondine loro, le ballotte e le bruciate io, e così via…
Col tempo, mia madre cominciò a chiamare molte cose col nome lucchese a partire dalla boccia che diventò finalmente varichina e il toppone che divenne castagnaccio, ma su ballotte e bordatino non cedette mai.
Sul castagnaccio, dovette convenire che andava chiamato così quando un giorno le feci leggere che:
Nonostante da diversi secoli appartenga al patrimonio gastronomico di Firenze il castagnaccio pare avere origine lucchese; infatti secondo quanto si legge nel "Commentario delle più notabili et mostruose cose d'Italia e di altri luoghi", di Ortensio Landi (Venetia, 1553), l'inventore del castagnaccio pare sia stato un tale "Pilade da Lucca", che fu "il primo che facesse castagnazzi e di questo ne riportò loda”
Ma per quanto riguarda il bordatino, quello, nonostante sia una ricetta dell’intera cucina Toscana, sosteneva che era nato a Livorno dove c’erano due scuole di pensiero: una che riteneva che questo piatto lo facessero i marinai, cioè “a bordo” e da qui il nome, e l’altra, la più plausibile e la mia preferita (anche perché non credo assolutamente che tutte le ricette più buone siano nate sulle navi), che sosteneva derivare proprio dal bordatino che è una stoffa resistentissima a righe sottili e colorate adatta per grembiuli da lavoro e canovacci; diceva mamma che, prima di guerra, nonna Cesara aveva in effetti foderato un vecchio sofà col bordatino che andava per la maggiore e che era color senape con sottili righe verde scuro. Praticamente come il cavolo nero nella polenta.
E a dire il vero, mi piace di più come lo faceva lei, di quello che a volte mi è capitato di mangiare in casa di qualche amico o in qualche trattoria; molti usano il brodo che si fa per la zuppa alla frantoiana, ma personalmente non amo sentire tutti quei pezzetti di verdure più o meno grossi nella farinata che secondo me deve essere morbida e liscia.
Si fa un bel brodo di fagioli rossi o borlotti come si fa abitualmente quando ci mettiamo la pasta, si sfriggono per bene le braschette (meglio se abbondanti e se hanno già sentito il freddo) in olio e aglio e, non appena avete buttato la farina gialla a pioggia nel brodo stesso e siete sicuri che non siano venuti grumi, unitele al tutto.
Il cavolo nero, però, può essere molto duro in certi periodi dell’anno, quindi assicuratevi che sia sufficientemente morbido prima di metterlo nella pentola.
In Garfagnana aggiungono al brodo un bel cucchiaio di strutto, versano la farinata nei piatti e la lasciano raffreddare; tolta dal piatto e divisa in quattro parti, viene fritta in olio o ancora nello strutto.
Questi “quarti” vengono chiamati manufatoli e, un bel po’ di anni fa, erano il pranzo dei boscaioli che avevano bisogno di calorie, possibilmente a buon mercato, che fornissero, velocemente, tutta l’energia indispensabile per il loro lavoro.
Se non dovete tagliare legna, occhio ai manufatoli…Non aggiungete strutto e arrostiteli invece di friggerli. Ci rimetterete un po’ in sapore, ma ci guadagnerete un’enormità in colesterolo e trigliceridi.