Negli anni ’70, a Genova, negli stessi padiglioni del Polo Fieristico dove ha luogo il Salone Nautico, si teneva il Tecnhotel-Bibe: era una fiera indirizzata a tutti gli operatori alberghieri, alla ristorazione e a tutti coloro che si occupavano del settore allora chiamato “Comunità e Convivenze” e quindi a mense aziendali, ospedali, camping, carceri, collegi e così via; inoltre, la parte detta “Bibe” si rivolgeva anche a qualsiasi locale dove bibite, vini e liquori fossero protagonisti.
Era davvero una fiera stupenda e potevi vedere un gruppetto di suore di Salerno e uno dell’Associazione albergatori di Rimini che si scambiavano informazioni e impressioni sui filtri per cappe aspiranti, o il titolare di alcuni locali notturni della Versilia che assaggiava degli champagne mentre una ragazza dello stand offriva caramelle ai bambini di una prima elementare in visita.
Ci stancavamo da morire perché passavamo la giornata in piedi per stare dietro ai clienti già acquisiti e a quelli potenziali, agli agenti della nostra Forza Vendita che venivano magari da lontano e volevano essere ascoltati e considerati, ai visitatori non del settore, ma che facevano domande in continuazione, e tutto questo, condito con il caldo quasi soffocante, il vociare continuo, le luci e gli altoparlanti che avevano continuamente qualcosa da dire, formava davvero una miscela letale.
Però… arrivava anche la sera e quando si chiudeva lo stand, si saliva velocemente in auto per andare a Nervi dove avevamo l’albergo: dopo circa quattro chilometri, c’è Quarto, proprio quello da dove partì la “Spedizione dei Mille” e in curva, a strapiombo sul mare, dove l’Aurelia sfiora la ferrovia, c’era una casupola di pietre piuttosto malconcia con terra ed erba sul tetto di lavagna che sorreggeva due o tre piccoli ma vecchissimi olivi. Era stato un fortino contro le invasioni saracene e quindi abituato a sopportare orde fameliche di ogni tipo; compresa la nostra. Un’ insegna azzurra con su scritto “Antica osteria del Bai” avvertiva che quella casetta insignificante che sembrava disabitata, era stata trasformata in un eccellente ristorante che serviva un ‘ottima cucina di mare e di tradizione ligure e l’interno, caldo e accogliente, arredato con gusto, faceva già pregustare come sarebbe stata piacevole la serata; ecco, la stanchezza era passata improvvisamente, l’albergo poteva aspettare.
Gianni, almeno così mi sembra di ricordare si chiamasse il titolare, era una persona piacevolissima, molto appassionata del suo lavoro e, subito al primo incontro, mi spiegò che quell’osteria esisteva già prima della fine del 1800, che è eretta sullo scoglio di Quarto da dove partirono i Mille e che Garibaldi sostò proprio lì al Bai la sera prima della partenza. Ancora oggi sono molto riconoscente verso Gianni, ma non per il “Piatto del Buon Ricordo” che volle regalarmi a tutti i costi o per le informazioni che mi ha dato su Garibaldi che, fra l’altro, ho sempre avuto simpatico, bensì sulle informazioni chiare e precise che mi dette riguardo ai gianchetti e al musciame che non conoscevo affatto. Però, visto che la pesca del bianchetto (gianchetto in dialetto ligure) è stata limitata al massimo dopo essere stata addirittura sospesa completamente per un paio di anni e che il musciame attuale è di tonno perché, in questo caso molto giustamente, quello di delfino è proibitissimo, dovrei dire che gli sono relativamente riconoscente in quanto mi ha fatto scoprire sapori e sensazioni che in parte, poi, ho dovuto abbandonare.
Quella sera ho saputo che i bianchetti non erano altro che il novellame di acciughe e sardine, e che il musciame era il filetto essiccato al sole di quei delfini che, purtroppo, annegavano restando impigliati per sbaglio nelle reti dei pescherecci.
Questa almeno era la versione ufficiale, ma siccome di questi “sbagli” forse ne avvenivano un po’ troppi, il governo, già da molti anni, lo ha proibito tassativamente e in commercio, attualmente, si trova solo il musciame di tonno che non è nemmeno un lontano parente di quello di delfino, ma non fa rischiare l’ergastolo.
I bianchetti sono trasparenti e rammentano molto le cèe, si avvicinano abbastanza a queste anche come prezzo e, come le cèe, si possono apprezzare facendo delle gustosissime frittelline o delle stupende frittate, ma, credetemi, dopo averli lavati accuratamente, buttateli due minuti in acqua bollente leggermente salata, conditeli con olio evo, qualche goccia di limone e una spolveratina di pepe, se vi va, e ne apprezzerete veramente tutto il gusto incomparabile; l’olio non deve essere piccante, non deve avere un sapore troppo deciso e aggressivo o un retrogusto amarognolo, ma deve essere leggermente fruttato in maniera che il delicato gusto di questo novellame non venga sovrastato o addirittura alterato. Personalmente non li cuocio nemmeno, ci strizzo sopra mezzo limone, li mischio accuratamente e con delicatezza, li lascio riposare due o tre ore e poi li condisco semplicemente con l’olio che vi dicevo, sale e pepe.
Succede però nei mesi di febbraio e marzo, che sono gli unici in cui è ammessa la pesca di questi avannotti, venga pescato un altro tipo di pesciolini piccolissimi e trasparenti che è difficilissimo distinguere dai bianchetti e sono i “rossetti”; all’acquisto, con l’occhio un po’ allenato, si nota che nella cassetta al mercato o nella vaschetta nelle vetrine delle pescherie in centro, la massa che formano tutti insieme è leggermente rosata anziché grigio/bianca. Sono molto buoni anche quelli, il prezzo è notevolmente inferiore e andrebbe tutto benissimo se qualche commerciante scorretto non cercasse, molto spesso riuscendoci, di spacciarli per bianchetti ricavandone un guadagno spropositato.
Da crudi si può ovviare, come vi ho detto, facendo attenzione alle sfumature di colore, ma se lo scorretto fosse un ristoratore? Da cotti sono praticamente uguali anche se mangiandoli risultano più “ruvidi” e leggermente più resistenti sotto i denti anche se forse più saporiti, ma se non avete mai mangiato gli altri o se li avete mangiati diversi anni prima, non è per niente facile fare il confronto e accorgersi della “furbata”. Allora, se avete una buona vista o dei buoni occhiali armatevi di pazienza e controllate le pinne dorsali: se il conto vi sembrerà piuttosto salato, ma avete trovato una sola pinna dorsale, pagate tranquillamente perché avete mangiato veramente i gianchetti, ma se le pinne trovate sono due, dite al cameriere che vi sembra una cifra esosa per aver mangiato un po’ di rossetti.
Qualcuno si chiederà perché la pesca del novellame di pesce azzurro è così restrittiva e controllata e quella dei rossetti no: semplicemente perché questi ultimi, pescati sul fondo, invece che vicino alla superficie come gli altri, non sono avannotti, ma pesci già adulti che, al culmine della loro crescita, possono raggiungere al massimo i 5/6 cm.
Sono anni che non vado all’Osteria del Bai, ma non ho perso l’abitudine di apprezzare i gianchetti e con i soliti amici vado ogni tanto a Recco da “ O Vittorio” o da “Manuelina”, ma a volte ci rinveniamo che ormai è aprile o maggio e allora ripieghiamo, si fa per dire, sui rossetti e sulla focaccia di Recco (altra cosa che riuscirei a mangiare a dismisura). Non so nemmeno se il Bai esista ancora, ma spero tanto di sì perché, in occasione di un vostro salto al Salone Nautico o all’Euroflora o all’Acquario di Genova, potete arrivare a Quarto in meno di dieci minuti e vi giuro che ne vale la pena comunque sia, anche al di fuori dei mesi di febbraio e marzo.
Dubito che Garibaldi abbia assaggiato gianchetti e musciame perché me lo immagino piuttosto “godereccio” e quindi credo che avrebbe ritardato di qualche giorno la partenza.
Nino, qui si fa l’Italia o si muore ma con calma, finita la stagione dei bianchetti…