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Ci sono anguille e anguille...

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Il nostro parco giochi e il territorio di tutte le nostre avventure, è sempre stato, fino a che gli scarichi e il tannino delle cartiere non lo resero scuro e maleodorante, il fiume Serchio. Per noi, erano una gioia anche le tre o quattro piene che si verificavano regolarmente ogni anno perché si passavano le ore a osservare quali fossero gli alberi più grandi che rotolavano giù insieme al fango, quali si mettessero di traverso non riuscendo a passare sotto il ponte, se prendevano più pesci Go o Baffino con la rete a bilancia o più anguille Fosco con la mazzacchera; si sorrideva dei non residenti che si spaventavano nel vedere il fiume così gonfio e limaccioso e soprattutto di quelli che preferivano non passare sul ponte e ritornavano indietro.

Ma sicuramente, la vera goduria era d’estate: bagni ne ho sempre fatti pochissimi rispetto ai miei amici perché mamma ha sempre avuto un po’ paura del fiume, quindi mi chiamava spesso a rapporto di sull’argine e, quando arrivavo a casa, mi controllava scrupolosamente per capire se mi ero tuffato. Bastava che mi passasse un’unghia sul braccio, e se restava una riga bianca piuttosto accentuata, erano sberle.

Si pescavano i pesci più grossi infilando le mani sotto gli scogli e chiudendo loro le vie di fuga oppure, con la dinamo della bicicletta collegata con un cavo elettrico ad una retina metallica si  stordivano pesci e ranocchi e praticamente bastava raccoglierli; ma la bellezza e l’abilità che ti facevano sentire il migliore, erano racchiuse nella pesca con la forchetta.

Quante ne avrò rubate dal cassetto di cucina per appiattirle perfettamente con un sasso e appuntirne pazientemente e scrupolosamente i rebbi sulle pietre davanti la chiesa?

Fortunatamente, a volte babbo dava una mano in cucina e sparecchiava per cui, la mancanza di qualche forchetta, era attribuita alla sua disattenzione e al fatto che queste finissero nel bidone dell’immondizia insieme con gli avanzi dei piatti.

Ritenevamo che il buon esito della pesca dipendesse dalla nostra capacità di artigiani e quindi, una volta effettuate queste opere di fine cesellatura sulla forchetta, la fiocina era pronta: bastava andare nel rasaio (letto di magra) davanti la Casina Rossa e, risalendo la corrente curvi e facendo attenzione a non scivolare sui sassi ricoperti dalla belletta, spostare piano, piano con una mano le pietre  più grosse o “sospette”, pronti a colpire il più  rapidamente possibile il pesce o l’anguilla che vi si fosse rifugiato sotto.

Con uno stelo di una specie di papiro che si trovava dovunque sulla spiaggia bianca e ghiaiosa o con un rametto di salia rossa fatto passare da sotto le branchie, si formava una filza che attaccavamo alla cintura e che era il trofeo con cui ritornare a casa; ma con le anguille non si poteva…quelle non morivano mai e attorcigliandosi su se stesse, oltre che invischiarti tutte le gambe, rischiavano di schiantare la filza e farci perdere il duro lavoro di qualche ora.

E allora le anguille ed il loro mondo misterioso furono spesso oggetto di discussioni e di leggende tra di noi ed anche ora, a distanza di cinquant’anni, restano comunque animali particolari e piuttosto sconosciuti che presentano molti lati oscuri della loro esistenza: tutti sappiamo che vanno a procreare nel Mar dei Sargassi e che, una volta nate, ritornano nei luoghi da dove erano partite le loro madri, ma io non riesco a spiegarmi come dopo tre anni di viaggio (tanto dicono che impieghino per ritornare nel Mediterraneo) arrivino a bocca d’Arno o di Serchio lunghe appena 4/5 cm. e trasparenti e sottili tanto da essere quasi invisibili visibili.

Bene, questo novellame di anguille, chiamate anche anguille cieche, come tutti sapete in Toscana si chiamano “cèe” alla pisana perché, anche se è doloroso ammetterlo, sono proprio un vanto  della cucina pisana; prima che ne proibissero la pesca nella prima metà degli anni ’80, si pescavano anche nel Magra, nella Burlamacca e in altri corsi d’acqua verso Livorno e Grosseto, ma, in effetti, sono una prelibatezza che ha avuto a Pisa il suo battesimo.

Il loro prezzo è sempre stato molto elevato, e quell’ometto che in inverno, in bicicletta arrivava qualche volta in paese con una tinozza stagnata dentro la quale si vedeva solo la schiuma che le cèe producevano aggrovigliandosi fra di loro, non faceva affari. E non li faceva nemmeno in città: da noi le cèe non erano molto conosciute, e tante donne non le potevano neppure vedere perché ricordavano loro dei vermicelli. E’ l’ingrato destino delle anguille: simili ai vermicelli da piccole e ai serpenti da grandi.

Ho cominciato ad apprezzarle diversi anni dopo quando in dicembre, prima delle feste, si organizzavano diverse cene per la “forza vendite” a “Tito del molo” allora ristorante simbolo di Viareggio e del mangiar bene della Versilia, famoso, chic e ovviamente molto caro, ma a ragione.

Allora, lungo il molo che separa gli stabilimenti balneari dalla Burlamacca, il comune di Viareggio rilasciava dei permessi e venivano assegnati i posti numerati dove i pescatori di cèe si posizionavano tutta la notte, perché è a buio che si fa questa pesca, con le loro “cerchiaie” che sono particolari retine rotonde e a maglia finissima esclusive per la cattura di questo novellame; Sergio Biagini (chiamato quasi da tutti Tito come suo padre), titolare storico del ristorante, simpaticissimo, elegante, sfegatato tifoso della Fiorentina (sul tetto del ristorante sventolava sempre e comunque la bandiera viola”), ma soprattutto appassionato visceralmente del suo lavoro, come ci vedeva entrare, correva subito alle due cerchiaie che aveva in dotazione e si faceva consegnare tutto il pescato.

Quando andava male, mangiavamo solo le bavette alle cèe, ma quando andava bene, si mangiavano anche all’olio e salvia che sono la su’ morte.

La ricetta pisana, prevede di sfriggere tre o quattro spicchi d’aglio insieme con qualche foglia di salvia e appena l’aglio comincia a imbiondire, si buttano le cèe e, dopo averle salate e pepate, si lasciano cuocere non più di cinque minuti; si uniscono quindi le uova, uno a persona, che avremmo sbattuto assieme con mezzo limone e un cucchiaio di parmigiano a testa. A questo punto, mischiato il tutto velocemente, verrà passato poi nel forno ben caldo per lasciarle gratinare leggermente.

Però, nonostante si debba la “scoperta” della bontà di questi avannotti alla cucina pisana, vi garantisco che non lo faccio assolutamente per partigianeria, ma preferisco di gran lunga la ricetta viareggina anche se con qualche correzione: aglio, olio e salvia come per la ricetta precedente con l’aggiunta di un po’ di peperoncino, dopo tre o quattro minuti si aggiunge un po’ di buon vino bianco, si sala e si lasciano ancora cinque minuti al massimo, ricordandosi di servirle caldissime.

Personalmente, non aggiungo né il peperoncino, né tantomeno il vino, semmai, una leggerissima spolverata di pepe una volta nel piatto.

Qualcuno aggiunge qualche goccia di limone, ma è preferibile, semmai, aggiungere il limone quando si mangiano bollite e si condiscono semplicemente con olio buono, sale e pepe.

Anni fa, avrei dovuto raccomandarvi, una volta buttate le cèe nel tegame, di coprirle immediatamente perché altrimenti vi sarebbero scappate subito dal recipiente e ve le sareste trovate in giro dovunque, ma ora che in Italia la pesca è proibita, si possono consumare solo quelle degli allevamenti spagnoli e francesi che arrivano surgelate e che, a dire il vero, sono buone sì, ma non certamente come le nostre.

Mi dispiace che si stia perdendo questa tradizione e allora, sarei contento se qualcuno dei lettori che non le ha mai mangiate si incuriosisse e provasse a gustarle in uno dei modi suddetti, o magari facendoci una bella frittata.

Mi dispiace perdere questa tradizione, ma è più che giusto attivarsi per proteggere animali in pericolo così come viene fatto anche per i datteri e i gianchetti .

Già, i bianchetti… Ve ne parlerò volentieri prossimamente.

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